domenica 23 dicembre 2018

Case popolari

L'altro giorno per un progetto ho fatto un giro in alcuni palazzi di case popolari. Fa un freddo cane e rimpiango un po' la mia vita da ufficio. Devo dare questi volantini del progetto, vedere un po' come sono le persone che ci abitano, quali sono i loro interessi, vedere un po' che aria tira insomma. Molti non aprono, ma quando aprono mostrano tutta la loro curiosità, facendo domande e passando la maggior parte del tempo a capire se sono solo un venditore che cerca di truffarli oppure no.
Mi apre un ragazzo, 40 anni, occhiali tondi, maglione pesante e sorriso a 32 denti. Parliamo, parliamo tanto. Mi racconta di lui e del lavoro che vorrebbe fare. Ci diamo appuntamento per un altro giorno. Nel congedarsi mi dice una cosa che mi coglie di sorpresa: "tu di che partito sei?". Di nessuno rispondo, e lui ribatte "peccato".
Peccato. È una parola che continua a tornarmi in mente da giorni.
Penso a quando ero ragazzo, al porta a porta nei paesini, ai miei comizi in piazza, a quando ancora avevamo il coraggio e l'ingenuità di chiamarci compagni. Nel senso più puro del termine. “Cum panis” coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che condividono l'esistenza, con tutto quello che comporta, gioia, lavoro, lotta, ma anche sofferenze.
Penso a questo e rifletto a quello che oggi è la politica. Post sui social network, tv e nessuno più a parlare con le persone. Penso agli insulti su fb e mi vengono in mente le eterne discussioni al bar e nei circoli, che terminavano sempre con una birra offerta a vicenda.
Penso a questo e mi sento improvvisamente nostalgico.
"Tu di che partito sei?" Sono del partito del guardarsi in faccia, di ascoltare gli altri, di aiutare sempre quando si può, di fare due chiacchiere davanti ad una birra.
Ma io e quel ragazzo non capiamo nulla, siamo fuori dal tempo e dalla storia, forse perché siamo del quartiere delle case popolari, e si sa, in periferia le mode arrivano dopo.

domenica 13 ottobre 2013

Solo il mare ci divide

A tutti i miei conterranei sardi: quanti di voi hanno un figlio, un fratello, un parente od un amico lontano dalla sua terra natia? Che è dovuto andare lontano da ciò a cui tiene, che sta in un luogo in cui non può parlare la propria lingua, che sente i propri cari solo al telefono, che lotta ogni giorno per costruire un futuro che fin dalla tenera età gli è stato negato? Ebbene, pensate a loro, e poi guardate le persone che vi stanno accanto con il colore della pelle diversa dalla vostra, che parlano una lingua che non comprendete, che vivono di stenti e spesso di elemosine. Anche loro sono figli, fratelli, parenti, amici di qualcuno che sta lontano. Accoglieteli come vorreste fosse fatto a coloro a cui tenete, e tutti staranno molto meglio. 

Relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912

ITALIAN
"Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali".
... "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni
che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".


Salludi e trigu

mercoledì 12 giugno 2013

Appello di un'amica da İstanbul

Dear friends,

I think you have already heard about resistance in Turkey specially in İstanbul since last 15 days. 
As Turkish media doesn't give almost any right news I want to give you some brief info about current situation in İstanbul.

With lots of you I have been talking about the gouvernment and their politics. Since few years its getting more authoritarian. 15 days ago a pacifist protest started to protect a parc in the heart of İstanbul in Taksim. This protest is not only for the parc, it is against authoritarian (restriction of alcool, abortion, pression on media, minorities, students, lawyers, artists, journalits......., liberty of expression, briefly try to rebuilt all part of our life with the restrictions) neo-liberal politics (urban transformation projects against to environnement, history of the city and fire the poor people out of the city to built shopping mall, hotels...) of gouvernement.   

Unfortunately any declaration of gouvernement and Turkish media are true. Police is so violent using tear gas, water cannons (not using water, some strange chemicals with water) and sometimes plastic bullets .3 people died. Lots of people are injured. Even lawyers were in custody. But we still resist in a pacific way. Gouvernment doesn't give any hope to understand, negociate or solve any problem. They just try to provoke people to create caos for legitimate violent police intervention.  

I have still lots of things to say but it is all for now. 

We would appreciate if you will be aware of the situation and tell around as an international lobby. 

Thank you for your support

martedì 26 marzo 2013

Tristezza Market


Università Commerciale Luigi Bocconi, Scuola di Direzione Aziendale, corso di Marketing.
La docente è là che parla di negozi di moda dove in vetrina ci sono le persone nude, che è una figata perché è copartecipativo, perché tu puoi con un concorso un giorno finire in vetrina o addirittura fare il selezionatore! Un posto dove in realtà non si vende abbigliamento, si vendono persone. Lei ci racconta di questo Abercrombie, parla di questo Abercrombie ma io non ascolto, io penso alle montagne albanesi, penso ai miei discorsi con i pastori fatti tra un pezzo di formaggio ed un bicchiere di raki.
Lei parla dei bellissimi pannolini con il disegno dei cartoni animati e io penso ai bambini dei nostri campi estivi, penso ai bambini della mensa del Vivaldi, ai loro sorrisi, al loro chiamarmi Xhaxhi, ai loro abbracci. Penso a quando in mensa io sono diventato Nikolin e Nikolin è diventato Roberto, lui era Roberto a tutti i costi, anche quando era scomodo, anche quando la responsabile faceva l’appello e Nikolin non rispondeva, per quelle 2 ore lui era Roberto e non c’era responsabile che tenesse. Quella complicità è stata per me tra le soddisfazioni più grandi della mia vita.
La docente parla della cosa fighissima che fa la fitness, ossia un sistema partecipativo dove i clienti stessi possono scegliere la pubblicità che il mese successivo la fitness farà in TV, e io penso ancora e solo ai miei amici albanesi, alle nostre “colazioni” al bar, alla volta che siamo andati dal nonno partigiano di Tony che trattenendo le lacrime ci ha raccontato della sua gioventù e della brigata Antonio Gramsci.
La lezione finisce e salgo in metro, nessuno parla con nessuno, tutti sono nervosissimi e corrono come formichine da un posto all’altro anche quando non c’è nessun motivo razionale per fare le cose così di fretta. Guardo loro e ancora una volta penso ai miei interminabili viaggi di ore ed ore sul furgon, seduto affianco all’autista che per tutto il viaggio mi racconta di lui, della sua famiglia, di quella volta che andò in Italia e fece tutto d’un fiato Bari - Venezia senza mai fermarsi. Penso a quell’autista e ripenso alla metro di Milano, e continuo ossessivamente a ripetermi, è questo il progresso? Se questo è il progresso allora possiamo chiamarlo tristezza.
Per domani ho un biglietto aereo Milano – Tirana, ma io non parto per nessun posto, come dice qualcuno, io non sono mai andato via.

giovedì 21 giugno 2012

Un futuro senza passato


C’era una volta un faraone e anche in questo racconto, come in tutti quelli dell’Antico Egitto, anche qui il faraone aveva un potere assoluto. La vita e la morte di una persona dipendevano da un no o da un sì, da un sorriso reputato non veritiero o da un’azione considerata contro i princípi egizi, che erano soliti cambiare molto spesso.
Questo faraone governò il suo paese con pugno di ferro per quarant’anni, cambiando così per sempre la storia dei suoi sudditi.
Quando morì, come tutti i sovrani dell’antico Egitto, fu costruita per lui una grande piramide, affinché il suo ricordo rimanesse scolpito nel tempo e nella memoria. Ogni volta che avrebbero rivolto lo sguardo alla piramide i suoi sudditi si sarebbero ricordati del faraone e del suo governo, si sarebbero ricordati di come la loro vita in quel periodo fosse stata difficile e di come con il passare degli anni fosse cambiata. Quella piramide sarebbe sempre stata un simbolo, di un momento tragico e di come si è riusciti a superarlo.
Dopo trent’anni dalla morte del faraone i suoi successori si misero in testa che quel monumento funerario doveva essere distrutto. Loro erano i campioni del disfare e ricostruire, conoscevano solo parole come cemento, televisione, appalti e denaro. La parola “storia” era stata abolita dal vocabolario, relegata insieme alla parola “ideali” in un armadio sepolto sotto cento metri di incuria, fatalismo e paura di esprimere le proprie idee. Cento metri figli di generazioni a cui era sempre stato negato poter pensare fuori dal coro, a cui era stato spiegato che non era necessario avere delle idee, c’era chi indicava quali erano quelle giuste e tu dovevi solo obbedire.
Girando per le vie di questo balcanico Egitto le tracce del faraone sono difficili da individuare, e ho sempre più la sensazione che a scavare a fondo non si riesca a trovar nulla, ma si rimanga solo più impolverati.
Anche se oggi il faraone non diventa tale per via dinastica ma per via elettorale, i dirigenti odierni fanno parte della stessa cerchia dell’antico faraone, magari medici personali, lontani parenti o più semplicemente amici o compagni. Dopo esser stati per decenni a braccetto col faraone ora si sfidano a chi meglio è riuscito a riciclarsi. Anche a loro, come al loro vecchio amico/compagno/paziente tutto è consentito. Niente è irrealizzabile. Il loro volere non è imposto né con la forza né con la reverenza nei confronti di una figura divina, ma bensì attraverso molto più materiali pezzi di carta chiamati denaro.Ora si sono messi in testa di distruggerla quella piramide, “loro non ascoltano. Non hanno orecchie. In quello che loro chiamano sviluppo, non c’è posto per ricordi né di storia né di cultura. Non hanno tempo per tutto ciò. Magari dopo, quando avranno costruito/distrutto tutto. Il loro fine è preciso: il guadagno. Fare e disfare ha un costo. E qualcuno guadagna, alle spalle di chi paga le tasse, a scapito di un futuro che non avrà un passato”.

“Dubcek direbbe che poteva andare diversamente e almeno lui ha fatto in tempo a vedere la differenza a volta astratta tra un regime imposto con i carri armati ed uno imposto più sottilmente col dollaro, il marco, l'euro.” 

Salludi e trigu

martedì 15 maggio 2012

Il posto più vicino fuori dal mondo


7 aprile. Ore 06.20
Il furgon per Koman ci aspetta. Il viaggio dura circa 2 ore, durante il tragitto siamo immersi in una fitta nebbia, che ricopre i torrenti e le montagne che il nostro avventuroso mezzo di trasporto attraversa facendomi sentire come in mezzo al nulla. Mi sento come quel viaggiatore che a bordo della sua Norton 500 attraversa le Ande, certo del fatto che quello che sto vivendo andrà inevitabilmente a far parte di un ricordo che porterò dietro per sempre.
Arrivati a Koman saliamo sul barca-bus, un autobus di linea saldato sopra lo scafo di una grossa barca. L’autista-comandante guida-naviga utilizzando il volante del vecchio autobus, che ormai non è più né autobus né barca. Sul nostro barca-bus in tre ore attraversiamo il lago di Koman, che più che un lago sembra un fiordo norvegese. Le fermate sono “a richiesta”, e l’autista-comandante fa scendere le persone sulle sponde del lago-fiordo là dove iniziano i sentieri di montagna che portano fino alle  case. Immancabili i sacchi di farina da 25 kg, che dopo i recenti mesi di isolamento a causa della neve sembrano essere la merce più scambiata della zona. Io stesso la mattina seguente avrò l’onore e l’onere di portare uno di quei sacchi lungo gli stretti sentieri fangosi che si inerpicano tra le montagne.
Dopo aver dormito in un blok dell’era comunista riusciamo finalmente, dopo 2 giorni di viaggio ad arrivare in Valbona.
Prendete una valle, circondatela di montagne altissime, riempitela di corsi d’acqua e cascate, ricopritela di neve per gran parte dell’anno, aggiungete qua e là qualche casa in legno ed avrete la Valbona.
Dormiamo in un agriturismo, siamo i primi ospiti dell’anno. Nelle camere fa freddissimo, tra le assi di legno che costituiscono la struttura portante dell’abitazione ci sono dei buchi, attraverso i quali si vede la neve. La morsa del freddo è terribile, ma è decisamente compensata dal calore con cui siamo accolti. Al piano di sotto, dove stiamo per la maggior parte del tempo, ci vengono serviti i cibi che la famiglia è solita consumare quotidianamente: formaggio di capra, carne, verdure, uova sode e l’immancabile raki, che scalda quasi quanto il fuoco perennemente acceso nel camino. Le discussioni con la famiglia davanti ad un caffè turco mi ricoprono di un calore difficile da descrivere. Il tempo si ferma e vorrei far finta di rimanere isolato in Valbona per godere ancora del magnifico paesaggio e del silenzio di cui in città sento molto la mancanza.
Solo ora capisco cosa sia la famosa ospitalità albanese, ospitalità è quando Bledar, nel salutarmi mi dice:  
“tornate quando volete, perché gli amici non hanno bisogno di un invito, sono sempre i benvenuti”.

Salludi e trigu

martedì 3 aprile 2012

Sheldi, istruzioni per l’uso.

Premesso che andare alla mensa del Vivaldi con i bambini resta sempre la mia attività preferita qui a Shkodër, mi rendo conto che scrivere sempre e solo dei bambini a lungo andare potrebbe diventare un po’ noioso. Detto questo vorrei parlare di un luogo che ho visitato e che credo tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita. La visita è stata fatta in vista del campo estivo di volontariato “Terre e Libertà”, una missione di fattibilità insomma.
Sheldi è un villaggio di poche anime inerpicato tra le montagne, circondato da un bellissimo lago azzurro e costruito in una zona quasi completamente rocciosa. Il panorama che si gode dalle sue alture è di quelli che tolgono il fiato, di quelli in cui vorresti per sempre star seduto su una roccia a scrutare l’orizzonte e le montagne innevate, scordandoti del tempo, delle futili cose che hai lasciato in sospeso e lasciandoti scorrere addosso tutte le stagioni senza per questo mai annoiarti. L’unico desiderio sarebbe solo stare ancora a guardare quello spettacolo della natura senza dire niente, nessuna parola potrebbe aggiungere qualcosa a quello che i tuoi occhi stanno guardando.
Nonostante la mia palese dichiarazione d’amore, il panorama è solo uno degli elementi secondari che mi hanno colpito di Sheldi. Il villaggio è composto da vari quartieri suddivisi tra diverse colline in base alla disponibilità di terre coltivabili. Le strade non sono asfaltate, non esiste un’illuminazione pubblica, non esiste l’acqua corrente, non ci sono negozi, bar, farmacie, Apple store, Mc donalds, ristoranti vegani, ristoranti cinesi, e altri beni che da noi molte persone ritengono ormai necessari. Altresì nel villaggio non è possibile trovare: sushi, pasta pronta precotta (tipo 4 salti in padella findus), ketchup, ostriche, dentifricio Acquafresh con tre colori diversi che tu non capisci mai come facciano a non uscire mischiati, Amuchina per l’igiene delle mani, bicarbonato e altri beni di prima necessità come quelli precedentemente elencati.  Lo dico nell’eventualità che qualcuno una volta arrivato sul campo possa dire “nessuno mi aveva detto che in questo paese sperduto era così difficile trovare delle bistecche di soia! Averlo saputo ne avrei portato un po’ anche per questi poveri bambini del villaggio!”. Ora che mi sono preventivamente salvaguardato da questi pericoli nessuno potrà più dire non ero stato avvertito, e io posso continuare nella descrizione del villaggio.
Appena arrivato la mia attenzione è attirata da una moto in lontananza che per la velocità sostenuta crea una grande nuvola di polvere. Giunta vicino a me la moto rallenta, alla guida c’è un bambino di dieci anni circa, stivali di gomma e camicia a quadri, nel sedile posteriore seduta di lato c’è quella che sembra essere la nonna, sulla settantina, tratti marcati, abito nero e fazzoletto bianco in testa. Con lo sguardo perso nel vuoto la donna non sembra essere troppo preoccupata della tenera età del guidatore né del fatto che per salirci l’esperto pilota deve utilizzare una qualche forma di scaletta.
Entrati nel paese sulla destra si nota un edificio di due stanze una di fianco all’altra, è la scuola, anche se a vederla non si direbbe. Nelle due aule i bambini di diversi anni seguono le stesse lezioni, la “scuola” è l’unico edificio dello stato sul territorio di sheldi.
A guardar bene il villaggio, almeno ai fini agricoli, non mi sembra così terribile, il lago è vicino e non ci dovrebbero essere problemi di mancanza d’acqua. Sbagliato. In estate le piccole riserve idriche finiscono e gli abitanti del villaggio sono obbligati, spesso a dorso di mulo, ad andare a prendere dell’acqua fino al lago o ai villaggi limitrofi, che a guardarli non sembrano poi così lontani, ma la mia prospettiva nella misura delle distanze sembra alquanto sfasata. Sto attraversando il villaggio con un fuoristrada, in borsa ho la mia bottiglietta d’acqua e i miei abiti sono lindi. Si, la mia valutazione delle distanze è decisamente distorta. Io ho sempre tirato una levetta e l’acqua è sempre uscita magicamente da un tubo senza fare troppe storie. Non mi ero mai interrogato sul come potesse essere non avere l’acqua corrente, non avevo mai pensato a come sarebbe stato se la mattina appena svegliato per lavarmi la faccia avessi dovuto fare dei chilometri.
Talvolta la felicità di un uomo si può misurare anche in levette.