giovedì 21 giugno 2012

Un futuro senza passato


C’era una volta un faraone e anche in questo racconto, come in tutti quelli dell’Antico Egitto, anche qui il faraone aveva un potere assoluto. La vita e la morte di una persona dipendevano da un no o da un sì, da un sorriso reputato non veritiero o da un’azione considerata contro i princípi egizi, che erano soliti cambiare molto spesso.
Questo faraone governò il suo paese con pugno di ferro per quarant’anni, cambiando così per sempre la storia dei suoi sudditi.
Quando morì, come tutti i sovrani dell’antico Egitto, fu costruita per lui una grande piramide, affinché il suo ricordo rimanesse scolpito nel tempo e nella memoria. Ogni volta che avrebbero rivolto lo sguardo alla piramide i suoi sudditi si sarebbero ricordati del faraone e del suo governo, si sarebbero ricordati di come la loro vita in quel periodo fosse stata difficile e di come con il passare degli anni fosse cambiata. Quella piramide sarebbe sempre stata un simbolo, di un momento tragico e di come si è riusciti a superarlo.
Dopo trent’anni dalla morte del faraone i suoi successori si misero in testa che quel monumento funerario doveva essere distrutto. Loro erano i campioni del disfare e ricostruire, conoscevano solo parole come cemento, televisione, appalti e denaro. La parola “storia” era stata abolita dal vocabolario, relegata insieme alla parola “ideali” in un armadio sepolto sotto cento metri di incuria, fatalismo e paura di esprimere le proprie idee. Cento metri figli di generazioni a cui era sempre stato negato poter pensare fuori dal coro, a cui era stato spiegato che non era necessario avere delle idee, c’era chi indicava quali erano quelle giuste e tu dovevi solo obbedire.
Girando per le vie di questo balcanico Egitto le tracce del faraone sono difficili da individuare, e ho sempre più la sensazione che a scavare a fondo non si riesca a trovar nulla, ma si rimanga solo più impolverati.
Anche se oggi il faraone non diventa tale per via dinastica ma per via elettorale, i dirigenti odierni fanno parte della stessa cerchia dell’antico faraone, magari medici personali, lontani parenti o più semplicemente amici o compagni. Dopo esser stati per decenni a braccetto col faraone ora si sfidano a chi meglio è riuscito a riciclarsi. Anche a loro, come al loro vecchio amico/compagno/paziente tutto è consentito. Niente è irrealizzabile. Il loro volere non è imposto né con la forza né con la reverenza nei confronti di una figura divina, ma bensì attraverso molto più materiali pezzi di carta chiamati denaro.Ora si sono messi in testa di distruggerla quella piramide, “loro non ascoltano. Non hanno orecchie. In quello che loro chiamano sviluppo, non c’è posto per ricordi né di storia né di cultura. Non hanno tempo per tutto ciò. Magari dopo, quando avranno costruito/distrutto tutto. Il loro fine è preciso: il guadagno. Fare e disfare ha un costo. E qualcuno guadagna, alle spalle di chi paga le tasse, a scapito di un futuro che non avrà un passato”.

“Dubcek direbbe che poteva andare diversamente e almeno lui ha fatto in tempo a vedere la differenza a volta astratta tra un regime imposto con i carri armati ed uno imposto più sottilmente col dollaro, il marco, l'euro.” 

Salludi e trigu

martedì 15 maggio 2012

Il posto più vicino fuori dal mondo


7 aprile. Ore 06.20
Il furgon per Koman ci aspetta. Il viaggio dura circa 2 ore, durante il tragitto siamo immersi in una fitta nebbia, che ricopre i torrenti e le montagne che il nostro avventuroso mezzo di trasporto attraversa facendomi sentire come in mezzo al nulla. Mi sento come quel viaggiatore che a bordo della sua Norton 500 attraversa le Ande, certo del fatto che quello che sto vivendo andrà inevitabilmente a far parte di un ricordo che porterò dietro per sempre.
Arrivati a Koman saliamo sul barca-bus, un autobus di linea saldato sopra lo scafo di una grossa barca. L’autista-comandante guida-naviga utilizzando il volante del vecchio autobus, che ormai non è più né autobus né barca. Sul nostro barca-bus in tre ore attraversiamo il lago di Koman, che più che un lago sembra un fiordo norvegese. Le fermate sono “a richiesta”, e l’autista-comandante fa scendere le persone sulle sponde del lago-fiordo là dove iniziano i sentieri di montagna che portano fino alle  case. Immancabili i sacchi di farina da 25 kg, che dopo i recenti mesi di isolamento a causa della neve sembrano essere la merce più scambiata della zona. Io stesso la mattina seguente avrò l’onore e l’onere di portare uno di quei sacchi lungo gli stretti sentieri fangosi che si inerpicano tra le montagne.
Dopo aver dormito in un blok dell’era comunista riusciamo finalmente, dopo 2 giorni di viaggio ad arrivare in Valbona.
Prendete una valle, circondatela di montagne altissime, riempitela di corsi d’acqua e cascate, ricopritela di neve per gran parte dell’anno, aggiungete qua e là qualche casa in legno ed avrete la Valbona.
Dormiamo in un agriturismo, siamo i primi ospiti dell’anno. Nelle camere fa freddissimo, tra le assi di legno che costituiscono la struttura portante dell’abitazione ci sono dei buchi, attraverso i quali si vede la neve. La morsa del freddo è terribile, ma è decisamente compensata dal calore con cui siamo accolti. Al piano di sotto, dove stiamo per la maggior parte del tempo, ci vengono serviti i cibi che la famiglia è solita consumare quotidianamente: formaggio di capra, carne, verdure, uova sode e l’immancabile raki, che scalda quasi quanto il fuoco perennemente acceso nel camino. Le discussioni con la famiglia davanti ad un caffè turco mi ricoprono di un calore difficile da descrivere. Il tempo si ferma e vorrei far finta di rimanere isolato in Valbona per godere ancora del magnifico paesaggio e del silenzio di cui in città sento molto la mancanza.
Solo ora capisco cosa sia la famosa ospitalità albanese, ospitalità è quando Bledar, nel salutarmi mi dice:  
“tornate quando volete, perché gli amici non hanno bisogno di un invito, sono sempre i benvenuti”.

Salludi e trigu

martedì 3 aprile 2012

Sheldi, istruzioni per l’uso.

Premesso che andare alla mensa del Vivaldi con i bambini resta sempre la mia attività preferita qui a Shkodër, mi rendo conto che scrivere sempre e solo dei bambini a lungo andare potrebbe diventare un po’ noioso. Detto questo vorrei parlare di un luogo che ho visitato e che credo tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita. La visita è stata fatta in vista del campo estivo di volontariato “Terre e Libertà”, una missione di fattibilità insomma.
Sheldi è un villaggio di poche anime inerpicato tra le montagne, circondato da un bellissimo lago azzurro e costruito in una zona quasi completamente rocciosa. Il panorama che si gode dalle sue alture è di quelli che tolgono il fiato, di quelli in cui vorresti per sempre star seduto su una roccia a scrutare l’orizzonte e le montagne innevate, scordandoti del tempo, delle futili cose che hai lasciato in sospeso e lasciandoti scorrere addosso tutte le stagioni senza per questo mai annoiarti. L’unico desiderio sarebbe solo stare ancora a guardare quello spettacolo della natura senza dire niente, nessuna parola potrebbe aggiungere qualcosa a quello che i tuoi occhi stanno guardando.
Nonostante la mia palese dichiarazione d’amore, il panorama è solo uno degli elementi secondari che mi hanno colpito di Sheldi. Il villaggio è composto da vari quartieri suddivisi tra diverse colline in base alla disponibilità di terre coltivabili. Le strade non sono asfaltate, non esiste un’illuminazione pubblica, non esiste l’acqua corrente, non ci sono negozi, bar, farmacie, Apple store, Mc donalds, ristoranti vegani, ristoranti cinesi, e altri beni che da noi molte persone ritengono ormai necessari. Altresì nel villaggio non è possibile trovare: sushi, pasta pronta precotta (tipo 4 salti in padella findus), ketchup, ostriche, dentifricio Acquafresh con tre colori diversi che tu non capisci mai come facciano a non uscire mischiati, Amuchina per l’igiene delle mani, bicarbonato e altri beni di prima necessità come quelli precedentemente elencati.  Lo dico nell’eventualità che qualcuno una volta arrivato sul campo possa dire “nessuno mi aveva detto che in questo paese sperduto era così difficile trovare delle bistecche di soia! Averlo saputo ne avrei portato un po’ anche per questi poveri bambini del villaggio!”. Ora che mi sono preventivamente salvaguardato da questi pericoli nessuno potrà più dire non ero stato avvertito, e io posso continuare nella descrizione del villaggio.
Appena arrivato la mia attenzione è attirata da una moto in lontananza che per la velocità sostenuta crea una grande nuvola di polvere. Giunta vicino a me la moto rallenta, alla guida c’è un bambino di dieci anni circa, stivali di gomma e camicia a quadri, nel sedile posteriore seduta di lato c’è quella che sembra essere la nonna, sulla settantina, tratti marcati, abito nero e fazzoletto bianco in testa. Con lo sguardo perso nel vuoto la donna non sembra essere troppo preoccupata della tenera età del guidatore né del fatto che per salirci l’esperto pilota deve utilizzare una qualche forma di scaletta.
Entrati nel paese sulla destra si nota un edificio di due stanze una di fianco all’altra, è la scuola, anche se a vederla non si direbbe. Nelle due aule i bambini di diversi anni seguono le stesse lezioni, la “scuola” è l’unico edificio dello stato sul territorio di sheldi.
A guardar bene il villaggio, almeno ai fini agricoli, non mi sembra così terribile, il lago è vicino e non ci dovrebbero essere problemi di mancanza d’acqua. Sbagliato. In estate le piccole riserve idriche finiscono e gli abitanti del villaggio sono obbligati, spesso a dorso di mulo, ad andare a prendere dell’acqua fino al lago o ai villaggi limitrofi, che a guardarli non sembrano poi così lontani, ma la mia prospettiva nella misura delle distanze sembra alquanto sfasata. Sto attraversando il villaggio con un fuoristrada, in borsa ho la mia bottiglietta d’acqua e i miei abiti sono lindi. Si, la mia valutazione delle distanze è decisamente distorta. Io ho sempre tirato una levetta e l’acqua è sempre uscita magicamente da un tubo senza fare troppe storie. Non mi ero mai interrogato sul come potesse essere non avere l’acqua corrente, non avevo mai pensato a come sarebbe stato se la mattina appena svegliato per lavarmi la faccia avessi dovuto fare dei chilometri.
Talvolta la felicità di un uomo si può misurare anche in levette.

lunedì 12 marzo 2012

Oltre le apparenze*


Spesso le immagini, gli incontri, le storie che viviamo o a cui assistiamo riaffiorano alla mente solo in un secondo momento trovando un punto di contatto inaspettato. Questo è quello che è successo ripensando ai miei primi giorni di permanenza in Albania alla ricerca di un episodio significativo da raccontare.
Subito mi è venuta in mente la storia delle “due caramelle”, un aneddoto simpatico ma allo stesso tempo indicativo.
Visitando alcuni dei beneficiari dei progetti Ipsia siamo stati accolti da una gentile signora con una ciotola di caramelle, cioccolatini e dolciumi vari. “Faleminderit” - ne prendo uno sorridendo e ricambiando la gentilezza - ma subito la signora mi porge di nuovo la ciotola. Ne prendo un altro e lei sembra più contenta. “Che carina” penso e intanto proseguiamo con la visita.
Il giorno dopo altra signora stessa scena, ma a quel punto si svela l'arcano. Il marito, un agricoltore che ha vissuto in Italia per molti anni, ci spiega che qui in Albania è usanza offrire sempre “moltiplicato per due”, uno per te e l'altro per il tuo compagno/a, come augurio affinché la coppia sia sempre unita.
Bene, questa spiegazione mi ha colpito molto e non soltanto perché forse sono un'inguaribile romantica. Mi è sembrato potesse rappresentare al meglio la gentilezza e la disponibilità di molte delle persone che ho incontrato in questi giorni. Una gentilezza che non cade in quello strano e fastidioso senso di riverenza nei confronti dello straniero ma che appare frutto di un genuino e sincero spirito di accoglienza (certo, forse un po' influenzato dalla nostra provenienza geografica).
Sembra quasi vi sia la voglia di aprirsi e di farsi conoscere dopo tanti anni di “chiusura forzata”, mi viene da pensare... ed ecco che compare un'altra immagine: quella di una punta di lancia piantata su un paletto per sorreggere le viti.
Pochi giorni prima un viticoltore ci aveva fatto notare questo strano particolare, tutti i paletti all'interno della sua vigna terminavano in quel modo. Servivano per difenderci dai nemici ai tempi del comunismo, così eventuali paracadutisti sarebbero morti infilzati - ci ha spiegato ridendo. Uno degli ultimi segni di un passato non molto lontano fatto di paura e isolamento.
Due caramelle e delle lance in mezzo a un vigneto, due immagini fortemente simboliche, apparentemente in contrasto ma che forse non sono poi così distanti.

*[Federica Castellucci]

venerdì 2 marzo 2012

Vivaldi non è un compositore


Mercoledì sono stato al “Vivaldi", un'associazione che oltre a mille altre cose si occupa anche del servizio mensa per i bambini svantaggiati provenienti sopratutto dal quartiere delle ferrovie, uno dei quartieri poveri di Scutari. Il compito mio e di Federica era quello di aiutare nella preparazione dei locali e nella distribuzione del cibo. E’ stato molto emozionante vedere questi trenta bambini fiondarsi all’interno della mensa e urlare contemporaneamente il nostro nome reclamando tutti un qualcosa di diverso che non riuscivamo a capire. A fine pranzo avevo imparato un sacco di parole nuove, e soprattutto avevo capito che sono io quello che ha da imparare da loro piuttosto che viceversa. Sapere che i bambini vanno a turno a scuola perché non ci sono abbastanza classi, vedere le loro condizioni di vita e sapere che per molte famiglie il servizio mensa gratuito per i loro figli a cui anche io collaboro è una cosa di vitale importanza sono cose che ti fanno riflettere. Fino a quando quello che faccio darà beneficio anche solo ad un bambino e le mie azioni avranno aiutato anche solo una persona a migliorare la propria vita, tutte le mie energie non saranno state spese invano. Se state per chiedermelo sappiate che la risposta è si, è quello che da sempre avrei voluto fare